Banalità algebriche. Che 5 sia uguale a 5 è una banale verità algebrica. Come ogni oggetto il numero 5 è auto-identico, realtà che si esprime algebricamente scrivendo « 5 = 5 ». Naturalmente il concetto di autoidentità può e deve essere posto in questione. Ciò che intendo focalizzare non è però l’autoidentità in sé ma il rapporto che l’autoidentità ha con l’algebra.
Assumendone «naturalmente» l’autoidentità, il calcolo algebrico non invade mai i numeri in se stessi. L’autoidentità di un numero non è il risultato di un calcolo o l’esito di una dimostrazione ma il riferimento fondante della validità dei processi algebrici. Il discorso algebrico dice e dimostra che, ad esempio, 2 più 1 fa, o è uguale a, 3 ma non che 2 «fa» 2 o che 2 è uguale a 2.
>>> Caratterizziamo dunque queste verità considerate banali in algebra, non banali in sé ma rispetto all’algebra, come assenza di lavoro algebrico. 2 «fa» 2 o 2 è uguale a 2 banalmente perché l’algebra assume un dato di fatto extra-algebrico senza intervenire.
>>> Notiamo che la funzione algebrica identità che associa, ad ogni numero n, il numero n stesso ( per ogni n, I(n) = n ), quando è applicata lascia le cose come stanno ed è quindi definita dal contenuto della banalità appena evidenziato.
Calcoli propri e impropri. Altre verità «banalmente» vere in algebra trovano una diversa collocazione rispetto all’algebra. Che 5×1 sia uguale a 5 è «banalmente» vero ma, in questo caso, ciò che è vero è il risultato di una moltiplicazione. Il contenuto dell’operazione non è in territorio extra-algebrico ed il senso di banalità è dato dal contenuto dell’operazione algebrica che ne comporta un risultato scontato: il risultato del calcolo non può che essere lo stesso 5 moltiplicato per 1. Moltiplicare un numero per 1 significa in sostanza applicare la funzione identità a quel numero ovvero esercitarne l’autoidentità nell’algebra. In questo caso l’operazione c’è (c’è un lavoro algebrico) ma il suo effetto è nullo (è come se il lavoro algebrico non fosse eseguito).
Attribuisco pertanto un carattere di improprietà alle operazioni algebriche il cui contenuto è l’esercizio dell’autoidentità e, per contro, attribuisco un carattere di proprietà alle operazioni algebriche il cui contenuto è francamente non autoidentitario.
Calcoli propri fondamentali. Se commutiamo i fattori della moltiplicazione precedente, il contenuto dell’operazione cambia radicalmente. Che 1×5 sia uguale a 5 è sempre scontato, ma per motivi ben diversi.
La moltiplicazione non si risolve in un’autoidentità ma in una somma ripetuta di 1. Il risultato è scontato perché, in generale, ogni numero è riducibile ad una somma iterata di 1 in quanto quella somma ricalca, nell’algebra, la prassi originaria dell’origine dei numeri. Ogni volta che si somma 1 si ottiene il numero successivo a quello già ottenuto.
Una somma iterata di 1 è evidentemente un’operazione algebrica propria dato che il suo contenuto non consiste nell’autoidentità e, di conseguenza, si prospetta propria ogni operazione algebrica riducibile a somme iterate di 1.
>>> In ordine a questo criterio, sottolineo che i calcoli propriamente algebrici riguardano i numeri in generale perché per i numeri zero e uno dobbiamo fare un discorso a parte. Essi non sono riducibili a somme ripetute di 1 ma solo a prassi autoidentitarie. Valido in generale qui emerge come valido dal numero due in poi ( per ogni n, n ≥ 2 ).
Numeri primi e numeri non-primi. La riduzione a somme di uno è ovviamente disponibile anche per i numeri primi. In generale ogni numero, primo o non-primo, ripercorre la propria origine come multiplo di 1 ma, per i numeri non-primi, ci sono altri numeri in grado di fungere da unità di questa prassi. Il numero 30, ad esempio, è espresso dalla somma ripetuta (tre volte) del numero 10, numero che funziona come l’1; a sua volta il 10 ha a disposizione il 2 e il 5, numeri non più riducibili nello stesso modo. Per il 2 e il 5 abbiamo solo il numero uno, numero che non rientra tra quelli esprimibili come somma di uno ripetuta (il più piccolo è il due).
>>> Caratterizziamo la differenza tra primi e non-primi così: i numeri primi sono calcolabili in modo propriamente algebrico in un solo modo, i numeri non-primi in più di un modo.
La «natura» dei numeri primi. Da questi rapidi tratti sulle fondamentali operazioni dell’algebra, i numeri primi si mostrano, nel rapporto con l’algebra, peculiarmente vincolati alla natura stessa dei numeri naturali. Essi sono interpretabili soltanto come somme di 1 iterate, esattamente come, in generale, ogni numero naturale.
Ricordando che l’iterazione della somma di 1 ripercorre l’origine dei numeri naturali potremmo cominciare a pensare che l’algebra può dire dei numeri primi ciò che può dire dei numeri naturali, e niente di più.
Che cosa può dire l’algebra dei numeri? In generale, cioè a parte 0 e 1, abbiamo visto che possiamo ottenere ogni numero come esito propriamente algebrico. C’è un solo modo che funziona per tutti ovvero la somma ripetuta del numero uno. Il numero uno, indispensabile per il calcolo propriamente algebrico dei numeri, sfugge però alle possibilità di questo calcolo.
Per i numeri non-primi è diverso. L’algebra li può esprimere in modo proprio senza uscire necessariamente dall’ambito in cui «lavora» propriamente. Vediamo infatti che possiamo fare benissimo a meno dei numeri non-primi esprimendoli come esito di operazioni con i numeri primi ( 2×5 invece che 10, e così via ). I numeri primi sono invece indispensabili.
>>> Notiamo che l’algebra può calcolare propriamente in piena autonomia solo i numeri non-primi e perciò ne può fare a meno. Non può invece fare a meno dei numeri primi che calcola propriamente ma solo con il numero uno che non controlla nello stesso modo.
Il «calcolo» dei numeri primi. Come facciamo a sapere se un numero è primo? Tutto quello che possiamo fare è fare dei calcoli propriamente algebrici, calcoli cioè in grado di fornirci un sicuro riferimento per distinguere ciò che è calcolabile da ciò che, in sostanza, non lo è.
Ciò che possiamo calcolare effettivamente sono i non-primi e quindi non ci rimane che calcolarli sistematicamente per escluderli con certezza dai primi.
Noi non calcoliamo i numeri primi ma quelli non-primi; ciò che rimane sono i numeri primi, numeri speciali proprio perché non risolvibili algebricamente con la stessa indipendenza. In quanto numeri, tutto quello che possiamo fare è dire dei numeri primi ciò che si può dire di ogni numero.
Uno schema per i numeri primi? Presupporre che esista uno schema per i numeri primi significa presupporre che esista un qualche calcolo algebrico non banale che li produca. Ciò significa identificare i numeri primi, ottenuti per differenza dalla certa impossibilità di calcolarli, con un calcolo non banale così come facciamo con i non-primi.
Ciò che ho esposto mi sembra sufficiente ad incrinare seriamente il presupposto. In questo blog
tesisuinumeriprimi.blogspot.it altro materiale compresa la tesi della non esistenza dello schema sviluppata in un quadro dimostrativo comprendente anche una versione algebrica.